Proverbio indiano

La dipendenza da qualcun altro è una continua delusione

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Lettera ad una scuola che non c’è più

Ieri ho osservato, attentamente, ascoltando ogni voce, ogni parola detta e non detta durante una riunione scolastica straordinaria falsamente democratica del liceo frequentato da mia figlia. Una scuola che era davvero all’avanguardia e che, nella mia precedente esperienza con la primogenita, è stata in grado di insegnare un metodo di studio valido per affrontare qualsiasi percorso successivo, con progetti innovativi e moderni. Con il lock down il mondo si è fermato, portandosi dietro questa scuola incapace, come molti, di affrontare e superare le proprie paure e paranoie date da instabilità e incertezza. I docenti e chi per loro si sono dimenticati che anche e soprattutto i ragazzi hanno sofferto silenziosamente questa situazione, imprigionati tra le quattro mura casalinghe protettive ma di reclusione. Niente più relazioni con il mondo esterno, niente più feste, amici, viaggi, interazioni, spensieratezza solo incertezza e precarietà. Adolescenti eruditi attraverso uno schermo sterile da professori presi dalle proprie angosce e insicurezze, che non hanno saputo capire le vere e profonde difficoltà dei propri allievi e, anzi , hanno infierito condannandoli con urla e isterismi inutili a cui ho assistito personalmente. Ho dedotto quindi che il ruolo di alcuni insegnanti di questa scuola ovvero quello di educare, di dare l’Esempio per eccellenza, di accompagnare con amore i propri ragazzi introducendoli alla vita e facendoli sentire a proprio agio in un momento come questo di difficoltà reale, mondiale, non è stato assolto. Non vige più l’amore per quello che si trasmette bensì il tutelarsi e tutelare il buon nome di una scuola che, a questo punto, non garantisce più una vera e propria educazione e una preparazione adeguata ai tempi, mettendo in primo piano i propri bisogni. Non più armonia e apertura mentale bensì chiusura di cuori che non sono in grado di bloccare infausti e presuntuosi giochi infantili di ragazzi bisognosi di attenzioni che non hanno, docenti e dirigenti in balia di tecnologie a loro incomprensibili che non riescono a gestire se non facendone un affare di stato, ledendo un’intera classe per pochi elementi disturbatori. Insegnanti che puntano il dito spaventando e minacciando ragazzi che hanno una testa, un cuore e una sensibilità per capire che hanno a che fare con persone spaventate e incapaci di prendersi le proprie responsabilità. Adulti che non vogliono e non sanno davvero ascoltarli, prevenuti e sordi. Impossibile comunicare con loro visto che la decisione è stata già presa. Come si può chiamare scuola?

Stefania Spaziani